Editoriale pubblicato su: www.teleborsa.it
A questo punto, a meno che non si verifichino incredibili (e direi improbabili) sconvolgimenti in stile Strauss-Kahn, sembrerebbe davvero che Mario Draghi abbia vinto la sua corsa verso la BCE. Se proprio vogliamo, formalmente, non esiste ancora nulla di definitivo in quanto la decisione finale verrà presa dai Capi di Stato e di governo a Bruxelles il 24 Giugno, tuttavia, il generale consenso che ha portato l’Eurogruppo ad indicare all’unanimità il governatore della Banca d’Italia come unico candidato alla presidenza della BCE comporta che solo l’imponderabile possa validamente frapporsi all’inizio dello storico mandato.
A questo punto, messo da parte un legittimo orgoglio nazionale, è possibile fare alcune riflessioni “più pacate” sull’evento.
Innanzitutto mi sembra doveroso rimarcare, da una parte, che Draghi ha dovuto effettuare la sua marcia di avvicinamento alla BCE nel corso della crisi economica più buia degli ultimi 80 anni e, dall’altra, che ha dovuto effettuare questa marcia totalmente “in solitaria“, potendo, di fatto, contare quasi esclusivamente sulle proprie forze, sulla propria professionalità e sul proprio carisma. Per quanto riguarda il primo punto, infatti, non si può dimenticare che il governatore è riuscito a costruire la sua candidatura trasformando, in circa 3 anni, il Financial Stability Forum ( Board dal 2009) da organismo consultivo e vagamente consultato (qualcuno ricorda, per caso, l’operato del predecessore di Draghi, Roger W. Ferguson jr?) in un organismo che, durante la crisi, ha svolto una fondamentale opera, da tutti riconosciuta, di individuazione e coordinamento delle strategie volte a traghettarci fuori da una crisi che minacciava di riportarci tutti quanti all’epoca del baratto. Non solo: terminata la fase più acuta della crisi (ma non certo l’emergenza) l’FSB, grazie al prestigio acquisito nel primo periodo della presidenza Draghi, ha assunto nell’ultimo biennio un ruolo chiave nella ricerca di soluzioni accettabili per tutte quelle problematiche che, se lasciate irrisolte, avrebbero potuto nel tempo generare nuovamente crisi di livello sistemico.
In quest’ottica l’FSB fornirà al G20, entro fine anno, alcune proposte di intervento relative all’adozione di requisiti più stringenti per i soggetti a rischio sistemico (i “too big to fail“), alla previsione di regole più trasparenti da applicare all’area dello “shadow banking” (la finanza parallela “off the rules” che intermedia negli USA circa 16 000 mld di $), nonché un insieme di proposte mirate ad una progressiva regolamentazione del mondo indefinito dei derivati che, spinto da una nuova ondata di “finanza creativa”, muove attualmente circa 600.000 mld di $.
Come evidente si tratta di problematiche di portata tale che, se non affrontate adeguatamente, appaiono perfettamente in grado, ad esempio, di limitare fortemente l’efficacia dell’impianto stesso di Basilea 3 su cui si sta attualmente concentrando l’attenzione dell’intero sistema finanziario.
Se dunque risulta chiaro che Draghi abbia costruito con successo, tassello dopo tassello, la sua candidatura alla BCE nel peggior periodo possibile, risulta altrettanto chiaro che la marcia verso l’investitura finale sia proseguita senza che il Governatore abbia potuto contare sul supporto normalmente assicurato al candidato stesso dalle istituzioni dello Stato di provenienza.
Da questo punto di vista non si svela certamente un segreto affermando che la nomina del Presidente della BCE, a causa del ruolo determinante assunto dalla Banca Centrale a sostegno dei Paesi e del sistema bancario in crisi, si sia rapidamente trasformata da evento di natura istituzionale in un problema politico e di equilibrio tra gli Stati membri nell’ambito del quale il “peso” e le pressioni esercitate dalle singole nazioni possono influire assai fortemente sulla decisione finale.
Ecco, forse, la peculiarità del successo di Draghi risiede proprio nell’avere ottenuto una designazione assolutamente “ad personam” e non, come di consuetudine, una designazione dettata dalla “ragion di Stato” o dalla forza della nazione di provenienza. Ovviamente con questo non si vuol sostenere che il Governo italiano, il Presidente del Consiglio ( tra l’altro forse ben contento di tenere Draghi lontano dalla scena politica nazionale) ed i ministri economici non abbiano garantito tutto l’appoggio formale alla candidatura del governatore ma, semplicemente, che, almeno negli ultimi periodi, la capacità delle nostre istituzioni di incidere efficacemente sul fronte internazionale, di esercitare concrete pressioni, di trovare accordi è stata, di fatto, minima. Da questo punto di vista mi sembra che i recenti accadimenti la dicano assai lunga a proposito: dall’eterno dubbio connesso all’essere o meno ricompresi tra i PIGS alla stampa straniera attentissima al “modus vivendi” dei nostri leaders, dalla scarsa considerazione tributataci dai partners europei nel corso della “guerra di Libia” al completo isolamento sul fronte dell’immigrazione clandestina e dei profughi di guerra.
Da non trascurare, infine, che se la “deriva mediterranea” ha privato il governatore di un valido sostegno interno, lo scontro “intestino”, attualmente in atto in Europa tra il blocco dei Paesi Mediterranei ed il blocco dei Paesi Teutonici, ha reso estremamente più complicato anche l’ottenimento del supporto esterno degli altri Stati con particolare riferimento al club della “tripla A” stretto tra una Merkel sempre più pressata da un elettorato “anti ellenico” ed una Finlandia “ostaggio” del partito dei “veri finlandesi” di Timo Soini non certo famoso per ardore europeista.
Nonostante tutto ciò la marcia solitaria di Draghi continua ed il traguardo è già in vista. E questo, in un quadro generale piuttosto sconfortante, dovrebbe essere motivo di orgoglio per tutti noi.