Pubblicato su: www.teleborsa.it
Come si ricorderà l’acronimo PIGS fu coniato nei momenti più drammatici della crisi del 2008 per indicare spregiativamente i 4 Paesi – Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna – che, a fronte dell’impossibilità di far fronte ai propri impegni di bilancio, chiesero aiuto all’Unione Europea. L’Italia non chiese mai un intervento di salvataggio all’Europa, ma la sua delicatissima situazione economica, che ebbe il suo apice nel novembre 2011, con il cambio tra il governo Berlusconi e quello Monti, la fece includere nell’acronimo che si allungò da PIGS a PIIGS.
E poiché oggi siamo nuovamente sotto la luce di tutti i riflettori europei, potrebbe essere utile dare una occhiata all’evoluzione della situazione in Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, se non altro per evitare errori che potrebbero lasciarci soli con la Grecia in balia di un qualche nuovo acronimo molto più breve.
IL PORTOGALLO
L’onda anomala della crisi dei debiti sovrani si abbatte sul Portogallo nel 2011: la situazione economico-finanziaria del Paese si avvita rapidamente portando al limite del collasso il sistema bancario. Moody’s declassa il rating del Portogallo a livello “spazzatura”. Sono momenti drammatici: in rapida successione il governo di centrosinistra di Socrates cade, viene dichiarato lo stato di insolvenza e si invoca un intervento di salvataggio esterno che coinvolga il Fondo Monetario Internazionale, la BCE e l’Unione Europea (la cosiddetta Troika).
Il successivo negoziato (per usare un eufemismo) porta alla concessione di un prestito di 78 mld di Euro di cui circa 40 volti a ricapitalizzare le banche e a consentire al governo di garantire i crediti vantati dal sistema bancario nazionale. Inevitabilmente, il Memorandum che viene firmato dal nuovo governo Coelho a fronte della concessione del prestito è durissimo. I principali impegni riguardano drastici tagli alla spesa pubblica, l’aumento della tassazione (aliquote IVA) ed un importante programma di privatizzazioni. Ma molto pesanti anche i sacrifici richiesti direttamente alla popolazione portoghese. Tra gli altri si possono ricordare l’aumento dell’orario di lavoro a 40 ore, il taglio delle festività, la riduzione degli stipendi pubblici (in media del 20%) il taglio delle pensioni e l’eliminazione della 13° mensilità.
Qui avviene il primo punto di svolta: l’essere andati così vicino al baratro genera nei portoghesi un misto di orgoglio e paura che li porta a resistere ed a superare il momento più drammatico, ossia l’impatto iniziale della cura. I portoghesi sono decisamente più poveri, ma resistono in uno sforzo corale che allontana progressivamente la nazione dal baratro del default. Così, nel 2014, il Portogallo esce ufficialmente dal piano di salvataggio e non richiede ulteriori aiuti e, nel 2015, quando viene eletto il governo Costa, la situazione del Paese è radicalmente diversa rispetto a quella di pochi anni prima.
Certamente la situazione non è risolta e l’economia di guerra ha lasciato numerose macerie alle proprie spalle. In particolare la disoccupazione rimane a livelli decisamente troppo alti, oltre il 15%, ancorché in trend decrescente. Però la fase dell’emergenza, grazie alla cura da cavallo, si può considerare superata. Il deficit è drasticamente calato passando dal 9,8% del 2008 al 3% circa, la solvibilità del Paese è migliorata come sono migliorati i conti con l’estero. Nel complesso i fondamentali del paese sono più stabili. E, soprattutto, aspetto fondamentale ancorché spesso trascurato, è migliorato il sentiment dei mercati verso il Portogallo che viene percepito come un Paese stabile, con un governo affidabile. Un Paese cui si può ridare fiducia e dove si può tornare ad investire.
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